RACCONTI: Il mio cane non ha mai capito un cazzo - di Jacopo Marocco
Jacopo Marocco colpisce per la sua scrittura "sporca e cattiva", sarcastica ma con una potenza fuori dal comune. Era da tempo che non pubblicavamo niente di suo ed era ora di rimediare.
laMarchesa13
Come d’uso lascio i link per il suo sito e il suo profilo twitter:
Blog: Jacopo marocco
Twitter: Jacopo Marocco
Per chi ancora non li avesse letti, eccovi i link per i precedenti racconti di Marocco, pubblicati qui sul blog:
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“alla fine cosa avremmo da dirci
se anche da estranei siamo comunque meglio dei nostri amici”
Ti augurerei il male – L’orso
Mio fratello non sta bene. Non sta bene per niente. Mia madre è una vita che dice che gli manca qualche rotella. Non lo so. Quello che so è che è pieno di fisse, da sempre.
Da piccolo non mangiava nei piatti, metteva il cibo direttamente sul tavolo e mangiava lì. Poi aveva un amico immaginario di nome Bob che, stando a quello che diceva lui, aveva sui quarant’anni, i capelli lunghi e grigi e viveva nei boschi. Poi c’è stata la fase in cui si faceva i tagli sulle braccia, quella in cui non dormiva perché era convinto che qualcuno, nel sonno, lo avrebbe soffocato. Quella delle scie chimiche. E tante altre fasi di follia.
L’ultima è quella degli alieni. Sono giorni ormai che non fa che ripetere a tutti: “Loro stanno arrivando. Sei pronto?”. E per “Loro”, ovviamente, intende gli alieni.
Il dottore che lo segue dice che ha fatto progressi, almeno ora non ha manie autodistruttive. “Sono solo fantasie che si crea per non affrontare l’angoscia della vita quotidiana”, dice il dottore.
Saranno solo fantasie, ma rompono i coglioni. Stamattina, per esempio, mi sono svegliato e me lo sono trovato ai piedi del letto, col casco della moto di papà indosso, e tramite la visiera aperta, guardandomi senza batter ciglio, mi ha chiesto se ero pronto, perché “loro” stanno arrivando. Io l’ho mandato a fare in culo e mi sono rimesso a dormire. Ma quando mi sono svegliato, più tardi, era ancora lì e mi ha fatto la stessa dannata domanda.
Ho appena cenato ed esco a fumarmi una sigaretta.
C’è il mio cane qua fuori, Desmond, che viene a farmi le feste, ma lo vedo che è agitato. Però non so bene cos’abbia. E’ stato fuori tutto il giorno, ma è evidente che i duecento metri quadrati tra cortile, giardino e orto non gli sono bastati, così non fa che andare avanti e indietro davanti al cancello di casa. Vuole andare a fare una passeggiata. Non credo si tratti di femmine visto che, a causa di un tumore, è stato castrato due anni fa.
Finisco la sigaretta, prendo il guinzaglio e glielo metto. Mentre stiamo uscendo sento un fischio. Mi giro e c’è mio fratello, in mutande, sulla porta di casa. Indossa un copricapo da indiano d’America, con tutte le piume che gli scendono giù lungo le spalle. So già cosa sta per dirmi.
“Loro stanno arrivando. Sei pronto?”
Alzo un braccio, gli faccio il segno del dito medio, apro il cancello ed esco col cane.
Desmond e i suoi quaranta chili mi stanno praticamente trascinando. Non riesco proprio a capire cosa c’è che lo fa comportare così.
Facciamo il giro dell’isolato molto velocemente, quasi correndo. Non c’è anima viva in giro, ma è sempre così la domenica sera. Sembra che qualcuno abbia esploso una bomba intelligente e fatto fuori tutti lasciando intatte le case, le piante, le strade.
Passo davanti alla mia vecchia scuola. Qualcuno sul muro ha fatto una scritta con lo spray
E SE TI VA POSSIAMO USCIRE A PRANZO
E SE I SOLDI CI AVANZANO
POSSIAMO COMPRARCI IL MONDO*
Deve averlo fatto qualche ragazzino ubriaco la notte passata. Ieri non mi sembra ci fosse.
Mentre imbocchiamo la via commerciale del quartiere, vedo un’auto che ci viene incontro. Mette la freccia ed accosta davanti alla banca. Si ferma a una decina di metri da noi. E’ notte, riconosco il modello della macchina, il colore, ma non chi c’è dentro.
Scende una ragazza che va a ritirare soldi allo sportello del bancomat. Intravedo un’altra figura dal lato guida. Il mio cane è ancora agitato, ma ora scodinzola, e sospetto il perché.
Più ci avviciniamo e più capisco. Lui sapeva già tutto, non so come, ma lo sapeva. E in parte, forse, anche io.
La figura che intravedo nella macchina mi è famigliare. Sorride. Lei sorride. Vorrei teletrasportarmi. Sono tre mesi che non la vedo.
Saluto la sua amica che sta ritirando al bancomat, lei mi restituisce il saluto distrattamente.
Ora sono all’altezza dell’auto, c’è il finestrino tirato giù. Fuoriesce un “Ciao”. Io ne abbozzo un altro di risposta, ma proseguo, tirandomi dietro il cane che, ora che ha sentito la Sua voce, è definitivamente impazzito.
Sono costretto a fermarmi.
Lei scende, mi sorride e fa:
“Passeggiatina serale?”
Quel “passeggiatina” mi entra in testa e uccide diversi neuroni. E’ chiaro che adesso frequenta uno di quei tipi che organizzano le serate usando in sequenza parole come “Pizzettina”, “Birrino” e “Cinemino” e che magari la mattina al bar chiedono un “Cappuccione macchiatone”.
Annuisco, sto un attimo, la saluto e me ne vado. Trascinandomi dietro Desmond.
Il mio cane non fa che voltarsi indietro.
Il mio cane non ha mai capito un cazzo.
Attraversiamo il parcheggio deserto del Walmart. Desmond continua a voltarsi, sto per mandarlo a fare in culo quando sento una vampata di aria calda. Anomala. I lampioni del parcheggio si spengono di colpo. Sento un ronzio che via via si fa sempre più assordante.
Sento Desmond tirarmi il braccio fino a farmi male. Sta lì, a tirare il guinzaglio, a metterci tutte le forze per andarsene. Poi una luce. Accecante. Il guinzaglio si stacca e Desmond scappa. Mi volto verso la luce e vedo solo bianco e devo coprirmi gli occhi per non rimanere cieco davvero.
Poi la luce si attenua e davanti a me, vedo che piazzato nel bel mezzo del parcheggio, c’è un disco volante. Sì, un disco volante. Proprio come quelli che si vedono nelle illustrazioni e nelle milioni di foto che non si capisce mai davvero se sono vere o meno. E’ un disco con mezza sfera sopra e mezza sotto. E si regge su tre piedi metallici che poggiano a terra. Insomma, un cliché di astronave.
Resto lì, immobile. Pietrificato.
Sento un rumore, si apre un portellone che diventa una rampa che tocca terra. Da dentro l’astronave fuoriesce una luce bianca, tenue. Intravedo un’ombra. Poi ecco che esce un essere, grigio, dalla testa grande a forma semi triangolare, gli occhi grandi e neri, naso a tartaruga, bocca minuscola e fisico piccolo, totalmente sproporzionato rispetto alla testa. Insomma, un altro cliché.
L’alieno si ferma alla fine della rampa. Non dice nulla, ma sento che sta comunicando con me telepaticamente.
Mi chiede se sono in ascolto. Annuisco mentalmente. E allora arriva la domanda. Quella domanda.
Secca, diretta.
“Sei pronto?”
Io mi guardo indietro, mi passo il dorso della mano sotto al naso che mi sta colando. Fa freddo. Penso a mio fratello. Penso all’Hotel Mercurio, a una giornata al mare tra sassi giganti, a un capodanno di qualche anno fa passato in un giardino. E penso ad altre cose, tipo la noia.
Poi, mentalmente, rispondo.
“No, grazie, esco proprio ora da una storia importante.”
Rispondo badando, sempre mentalmente, a fare le virgolette nel momento in cui penso “Esco-proprio-ora-da-una-storia-importante”, perché in fondo, anche questo, è un cliché. Una frase cliché. Un’uscita d’emergenza.
L’alieno mi comunica che capisce. Si gira, rientra nell’astronave. Il portellone si chiude e, prima che possa rendermene conto, l’astronave è solo una piccola stella che brilla sopra la mia testa.
Vicino a me c’è di nuovo Desmond.
Lo guardo, poi mi incammino e lui mi segue anche senza guinzaglio.
Ora non si guarda più indietro.
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